24 agosto 2011

La frigonave



Nico e Alina erano due bambini di circa otto anni. Vivevano in una baracca costruita di assi di legna marcia che i loro genitori avevano trovato nel bosco in cui abitavano. Il tetto perdeva acqua e non avevano nulla se non la loro fantasia per sopravvivere alla fame e al tedio. Nella loro casa non c’era niente se non un materasso riempito di paglia, un tavolo sgangherato e un piccolo paiolo dove la loro mamma preparava la cena. Si perché per loro il pranzo non esisteva.
Passavano le giornate a rincorrersi nel bosco mentre i loro genitori vagavano fino al paese più vicino per procurarsi il minimo indispensabile alla sopravvivenza. La vita non era stata generosa con loro e li costringeva a passare lunghe ore da soli a raccontarsi storie nel linguaggio incomprensibile dei bimbi.
Un giorno d’estate mentre camminavano lungo il fiume che scorreva vicino alla loro misera casupola videro una macchia bianca luccicare tra i cespugli. Il sole la illuminava violentemente e si avvicinarono quasi accecati. Nico che era sempre più coraggioso della sorellina e più intraprendente si avvicinò con un balzo pronto a scoprire il mistero che si nascondeva dietro l’oggetto. Alina rimase indietro attorcigliandosi una ciocca di capelli corvini attorno ad un dito. Nico non sembrava intenzionato a dirle nulla circa la sua ispezione e lei si fece impaziente, tanto che lei gli gridò:
- Allora che cos’è?
Nico non le rispose e lei, vincendo la titubanza iniziale, gli si accostò pronta a svelare l’arcano. Entrambi presero ad esaminare la cosa, una specie di contenitore bianco, pieno di lunghe strisce bianche infilate dentro e uno sportello che lo chiudeva come il baule che aveva la loro mamma in un angolo della capanna. Non avevano un nome per descriverlo ma decisero che sarebbe diventato una loro proprietà.
- Perché non lo mettiamo in acqua? – propose Nico. Alina si ritrovò d’accordo e subito lo spinsero nel fiume lanciando schizzi a destra e a sinistra. Con loro meraviglia galleggiava. Felici stabilirono che sarebbe diventata la loro nave e che l’avrebbero tenuta nascosta ai loro genitori.
Tolsero i ripiani che erano all’interno e grazie alla loro magrezza riuscirono ad infilarsi all’interno e a percorrere qualche metro del fiume tenendosi accostati alla riva, fedeli alle raccomandazioni della loro mamma.
Prima di sera occultarono la nave tra i cespugli e dopo aver chiuso il coperchio la ricoprirono con uno strato di fango. Tornarono a casa eccitati ma i loro genitori li accolsero con un brodo di radici che avevano raccolto nel sottobosco e neanche la felicità di possedere una nave riusciva a riempire lo stomaco. Andarono entrambi a letto sognando di riuscire a scappare dal loro bosco con quella strana imbarcazione bianca.
Per molti giorni tornarono al loro nascondiglio e giocarono con la cosa trasformandola di volta in volta in casa, bancarella, tana di qualche animale pericoloso come il lupo, ma il loro gioco preferito era quello della nave e dell’esplorazione della riva del fiume.
Percorrevano lunghi tratti transitando tra i canneti, raccogliendo le lacrime dei salici piangenti, osservando il pigro moto degli animali che abitavano il sottobosco ad un passo da loro. E immaginavano che tutto intorno a loro vivessero gnomi, elfi e fate che avrebbero portato loro dei regali speciali: qualche moneta d’oro o un po’ di cibo. Per lo più non accadeva nulla, ma quei pomeriggi volavano via tra sogni e divertimento.
Le giornate presero ad accorciarsi e in men che non si dica l’inverno aveva divorato il bosco. Faceva freddo e la neve cadeva rivestendo ogni cespuglio di una fitta coltre bianca. Uno spesso strato di ghiaccio ricoprì il fiume e le gite in barca vennero sospese.
Ma la loro nave offriva mille alternative e confondendosi con il paesaggio diventava un’ottima slitta. Alina e Nico passavano altre innumerevoli ore trascinandola da un capo all’altro del bosco cercando di vincere il freddo muovendosi il più possibile.
Non avevano una reale concezione del tempo che passava, se non per l’alternarsi del giorno e della notte, non avevano idea di che cosa fosse il Natale, che quel periodo dell’anno si chiamasse inverno. Avevano conoscenza solo delle nozioni che avevano fornito loro i genitori, i quali non avevano ritenuto importante altro se non le normali norme di sopravvivenza nel bosco. “Rimanete vicino alla riva del fiume”, “Attenzione a dove mettete i piedi che le radici spuntano fuori all’improvviso” e poco altro. Ma durante tutta la stagione il loro mitico baule era servito per colmare i vuoti lasciati dalla fame e dal freddo. Era stato un amico e un confidente, più reale di qualsiasi altra cosa che viveva a mille e mille chilometri di distanza.
A febbraio nei boschi si iniziavano a vedere i cacciatori che stanavano i cervi, il freddo consumava le ossa ma inevitabilmente qualche prode usciva con il fucile in spalla. Nico e Alina non sapevano che cosa fosse un cacciatore e come al solito si aggiravano per il bosco con la loro nave-slitta senza preoccuparsi minimamente di niente. Quel posto era la loro casa, il loro territorio, gli animali i loro amici e non avevano mai visto altri esseri umani se non i genitori.
Improvvisamente iniziarono a sentire dei rumori strani, degli scoppi assordanti che facevano scappare tutti gli uccelli. Inquietanti fruscii li seguivano per il sottobosco e iniziarono ad avere paura. Poi un giorno si trovarono faccia a faccia con uno di questi uomini vestiti di verde mentre inseguiva un cervo e lo sparo che rimbombò andò a colpire il loro mezzo di trasporto.
Alina iniziò ad urlare colpita al cuore e Nico si scaraventò contro l’uomo che lo teneva a distanza prendendolo per il cappotto tutto rappezzato.
- Bambini state fermi è solo un vecchio baule – si difese il cacciatore non avendo riconosciuto l’oggetto.
Ma i due fratellini iniziarono a protestare, cercando di spiegare quanto per loro fosse importante. Era un amico, un compagno di giochi e in quel momento era come morto.
Quando l’estraneo chiese dove fossero i loro genitori e perché girassero da soli in quel periodo dell’anno i due scapparono via, cercando di far perdere le loro tracce e trascinandosi dietro la loro nave. Si rifugiarono nella capanna dopo una lunga corsa. Avevano paura. Quella sera i genitori portarono una pagnotta di pane e andarono a dormire sazi, dimenticando la paura e quello che era successo nel pomeriggio.
La notte passò in fretta e il mattino dopo furono svegliati da alcune voci fuori dalla loro capanna. Non capirono mai che cosa successe. Vennero trascinati via dalla propria casa e dalla propria famiglia. Volevano portare con loro la nave ma glielo impedirono.
Li misero in quella che chiamarono automobile, li portarono in una città lontanissima e non videro mai più la mamma e il papà. Li misero con altri bambini e iniziarono a vagare da un istituto ad un altro con la sola promessa che non li avrebbero mai separati. Ma alla fine anche questa venne infranta. Li affidarono in due famiglie diverse e per molti anni non seppero nulla l’uno dell’altro.
Crebbero, amati e coccolati, pieni di attenzioni e di tutte quelle cose che ti dà una famiglia. Ma nel loro cuore rimase sempre un’amara nostalgia per quei mesi in cui avevano condiviso la loro nave. Impararono la divisione delle stagioni, a leggere e a scrivere. Alina mise su carta i racconti che inventavano insieme, scrisse della nave, degli gnomi e degli elfi. Nico disegnava i paesaggi che avevano segnato quel periodo della sua vita cercando di fissare nella memoria quegli attimi che altrimenti si sarebbero persi per sempre, uccisi da altri giorni che si andavano ad accumulare nella sua memoria.
Anni pieni di eventi e di gioia, ma anche di infinita tristezza pensando a quello che avevano perso. In fondo la nave li aveva portati lontano in un mondo in cui erano sempre al caldo, avevano cibo in abbondanza e vestiti puliti. Ma mancava sempre qualcosa. Quella magia che sempre aveva caratterizzato le loro notti nella capanna. Secondi in cui la consapevolezza di non essere più gli stessi bruciava nei loro cuori. E uno struggimento continuo per la loro nave bianca, uccisa da quell’uomo che aveva distrutto la loro famiglia.
Alina e Nico vivevano sempre un po’ separati dai loro coetanei perché in qualche modo erano dovuti crescere prima e più in fretta e un po’ per gioco e un po’ per passione si ritrovarono entrambi a partecipare ad un concorso: lei con un tema, lui con un disegno.
In un lungo corridoio nella scuola che li ospitava si incontrarono, si fissarono per un po’ e alla fine si riconobbero per quello che erano: fratelli. Si strinsero in un abbraccio e rimasero ore in mezzo agli altri a riprendere i fili delle loro vite, a ricucire passaggi, a cercare di capirci qualcosa, a ritrovarsi. Perché nonostante tutto erano ancora quei bambini di otto anni, spaventati e sballottati di qua e di là. E a nessuno dei due importava del concorso e del perché erano lì. L’unica cosa davvero importante era essersi ritrovati dopo tanto tempo. Ed era un peccato non sapere più nulla dei propri genitori, speravano che qualcuno li avesse aiutati, ma avevano per le mani solo congetture.
Dopo aver colmato il vuoto di anni si scambiarono i loro lavori per ricevere il commento dell’altro. Entrambi i lavori parlavano di loro e delle loro avventure e in entrambi la protagonista era la loro nave bianca. Per un po’ rimasero ad osservare il disegno di Nico e a rivivere i loro ricordi.
Ad un tratto entrambi vennero colti da un’illuminazione e iniziarono insieme.
- Come ho fatto a non pensarci prima è…
- Ma certo è…
- Un frigorifero – conclusero insieme, fissandosi meravigliati e scoppiando a ridere. Si abbracciarono e dopo un attimo di serietà Nico annunciò:
- Non è un semplice frigorifero. E’ la nostra frigonave!
E la loro frigonave li aiutò sempre ad attraversare il mare delle loro vite.

Annachiara Di Stasio

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